Toyoda ci porta in uno dei luoghi più spietati e disumani che ci possano essere…guerra? carcere?
Il parco giochi di Himmler? ..no…ci accompagna in un luogo assai più crudele….la scuola superiore!!! Il giovane regista giapponese ci presenta una scuola insolita, almeno per quanto siamo abituati a pensare la scuola del sol levante: affollata, perfettamente organizzata ed estremamente selettiva. Fra i corridoi vuoti, imbrattati di scritte fino all’eccesso, si lotta ogni giorno per il rispetto, si gioca con la morte, ogni alunno della scuola sembra essere solo, disperato, ognuno cerca una via di fuga; ma sembra essere la morte il desiderio che accomuna tutti, dominatori e sottomessi, tant’è che la sfida rituale sul tetto della scuola, si vince avvicinandosi letteralmente quanto più possibile alla morte… e chi vince è Il Capo , indiscusso, per tutti, studenti e professori.
Gli alunni pensano al proprio futuro, alla propria vita e non vedono una via di uscita. La violenza gratuita, l’esercizio del potere, è un modo per diventare qualcuno, essere rispettato e da subito(per gli altri non resta che allenarsi da soli per uno sport di gruppo). Ma la violenza (o la solitudine?) sembra consumare tutti, chi entra nella yakuza, chi viene arrestato per omicidio (di un amico), chi perde improvvisamente la vista. Rimangono in due del vecchio gruppo di amici: Kujo, che pur essendo il capo si rende conto della situazione, e cerca difficilmente una via di fuga alternativa, e Aoki, che vuole impadronirsi del titolo dell’amico. La sfida non si può che svolgere sul tetto, ma il potere conquistato non vale l’amicizia. La scuola giapponese è probabilmente la più selettiva e individualista del mondo, Toyoda sembra vedere nell’amicizia l’unico modo per riuscire a pararsi il culo durante gli anni della scuola. Il futuro è incerto, ma quando si ha la certezza di aver fallito le proprie mete, con ancora tutta la vita davanti, la morte attira come una calamita. Qualche amicizia sincera può aiutare a restare sul proprio cammino. Tutto qui? Sembra sin troppo semplice il lavoro del regista, sia per come usa la macchina da presa: uno stile umile, misero (si limita alla telecamera a mano per le scene più veloci (forse non si arriva a tre). Sia per la linearità della storia, il cineasta si concede solamente di svelare il rapporto di amicizia profonda che legava i due amici solo nel finale, ciò costringe lo spettatore a ripensare tutto il film durante la sequenza finale. Ma ciò non deve trarre in inganno, la vera potenza del film sta nel suo crudo espressionismo, la scuola è fatiscente, i corridoi vuoti, sporchi fanno da cassa di risonanza alla vita degli alunni, Le scene più violente sono sempre cupe, sempre più nere. Lo stile è ridotto al minino come la voglia di vivere dei personaggi. Peccato che Toyoda faccia un paragone piuttosto banale fra gli studenti e i fiori che devono sbocciare, ma sicuramente il suo Blue Spring (primavera triste …la traduzione è mia) rimane un film da vedere. Come gli altri giovani del cinema giapponese (K.Kurosawa, S. Sono e il più esperto T. Miike) rappresentano una realtà dove la solitudine e la decadenza consumano dall’interno la società e l’individuo.