
1750 circa. La dinastia Ching invia un monaco buddista cieco e spietato, specializzato nella ghigliottina volante (una specie di casco lanciabile mozzatesta) a uccidere i ribelli.
Obbiettivo N°1 è il boxeur da un braccio solo, grande maestro delle arti marziali Jimmy Yu Wang.
C'è un torneo all'ultimo sangue fra le varie discipline marziali, che occupa gran parte del film, e che andrà a investire con il senso della sfida fine a se stessa(fra i caratteri, fra le scuole di combattimento) ogni singolo duello extratorneistico.
La regia (che è dello scrittore/attoremarzialeprotagonista) è di derivazione chehiana, quindi se c'è da ricostruire o da evidenziare con la Mdp non ci si tira indietro, se c'è da far camminare qualcuno sulle pareti e fargli compiere salti mortali icarici non ci si tira indietro.
Ma queste marginali concessioni effettistiche vengono contrastate costantemente dalla fotografia, dalla messa in scena dei combattimenti (che vengono giostrati spesso e volentieri in modo veramente raffinato sui semitotali e sui campi lunghi) e dai piani sequenza di scene di non combattimento. queste strategie della messa in film sono tese tutte ad una rappresentazione più neutra e naturale possibile, tant'è vero che le marche espressionistiche (come i flashback virati al violaacido), seppur sparute di numero, risultano assai fuori luogo.

La grandezza del film sta per me, più che nella qualità del kungfu e delle coreografie (entrambi di grandissimo valore e varietà), più che nella regia, più che nella scelta hardcore di dedicare ampissimo spazio al torneo (quasi quanto ad una competizione delle prime serie di dragon ball) e di costruire il resto del plotting come un continuo di esso (quello che conta è sancire la superiorità della propria scuola/ideologia su di una scacchiera geopolitica).....dicevamo...più che in tutta quella roba che ho detto, per me il merito del film sta nella gestione che fa Yu Wang di una trama vermaente minimale, che dispensa col contagoccie input allo spettatore, gettandolo nell'incertezza riguardo alle qualità morali dei personaggi(quelle marziali si misurano in arena); Di consequenza i combattimenti (nonstop e neverending) acquistano una dose di tensione melò che viene aggiunta a quella filmica e marziale (non è l'amore, non è la famiglia; è l'appartenenza ad una certa scuola di kung fu/ideologica che genera scontro iperbolico fra passioni immutevoli e contrastanti).

Si discuteva sui commenti di questo post sulla parentela che lega il KungFuMovie (ma lo sapevate che l'audio originale di questi film era quello in inglese?...io no) al Musical, ora, tralasciando questa discussione (che spero continui in quel del giovancinefriulan), vorrei evidenziare il rapporto fra questi film e il cinema dei primi anni(come ha fatto più notare Kekkoz).
Questo per:
La netta supremazia dell'attrazione sulla narrazione (la performanza degli attori dura e cruda, sopra la coreografia, sopra la regia, sopra qualsiasi altro aspetto...come il treno bastava a se stesso qui il kung fu è come Nanni, autarchico...perciò Bruce Lee, semplicemente, è il meglio di tutti, lui del cinema non aveva nemmeno bisogno, lo trascendeva).
La natura fortemente melodrammatica di questo genere, attestata oltre che dai contrasti insanabili e dalla natura unidirezionale dei personaggi, viene sancita anche da una recitazione enfatica e ammiccante, che può fare tranquillamente a meno delle battute di dialogo, pantomimando nell'azione l'emozione, indicando con un gesto le proprie intenzioni, sancendo qualità con la fisiognomica.
Il ricorso frequente allo slapstick che; (sopratutto nelle commedie kungfu, ma anche in questo film ne possiamo trovare di esempi) non è inserito come citazione gratuita o per aumentare il metraggio, ma un'utilizzo così massiccio e diffuso afferma che lo slapstick era sentito, apprezzato e richiesto per tutta la catena produttiva.
Varie ed eventuali.

Tornando al film vorrei limitarmi a citare il duellante indiano maestro dello yoga (l'interprete cinese tinto di marroncino fa parecchio yankee che recita l'indiano nei film western) che allunga le braccia come Dalsim (quello di street fighter) in un'abilità se non realistica (ma su cui la regia svolge un'ottimo lavoro ottico e di piani per nascondere il trucco) è sicuramente davvero divertente; quello tailandese con i calli ossei sugli stinchi è cattivo come pochi... e poi un monaco shaolin (che assomiglia a pai mei)recitare nella parte del villain non è poi così comune vederlo.
Questo è il secondo episodio di una serie spinoffata dal one armed swordman di Chang Cheh (sempre con Jimmy Yu Wang, film (quello di cheh) che ha dato il via a tutto il genere.
Mi stupisco della grande liberta con la quale sembravano accostarsi al cinema, un attore poteva cambiare casa di produzione portandosi dietro il titolo, l'immaginario, lo stile di regia, dando vita ad un nuovo serial, che sarebbe stato nuovamente copiato e rivisitato da altri.
Ancora una volta un'industria culturale che si dimostri capace di copiarsi, di rubarsi temi, personaggi e situazioni senza preoccuparsi della proprietarietà delle idee di partenza, è un'industria che sviluppa e incentiva la creatività.