
Un film retto sulla nonsense e sull'eccentricità. Siamo nel giappone degli shogun e una coppia gay va a fare un pellegrinaggio per risolvere i problemi di droga di uno dei due.
Da li iniziano un viaggio fra il surreale e il demente che attraversa un'infinità di sequenze più o meno autarchiche dove il racconto alla fine lo si narra, ma a strati e per rimandi. Ottima prima prova per Kankurô Kudô: senso dell'inquadratura e della composizione, le varie sequenze pur variegate per forma e ritmo si legano senza attrito fra loro e lo spaesamento che si prova a guardare il film non si perde la concentrazione nemmeno nella seconda parte; più complessa e ambiziosa, dove la demenzialità viene leggermente accostata per ritagliare un angolo di melodramma (anche ben costruito) e la "narrazione" si fa ancora più ardita arrivando a legare un uomo-fungo che sogna il suo amato morto e la sua moglie uccisa a il suo amato morto che consola la sua moglie uccisa sotto forma di bonzo gigantesco che piange per poter tornare in vita.
Poi ci sono i colori corretti in digitale, le sovrimpressioni, estetica da muto e altro ancora, ma quello che più ho apprezzato sono stati i nascosti (ma anche marcoscopici) giochi metatestuali; niente di nuovo, ma realizzati in modo davvero fresco e competente (come la scena del monte Fuji).
L'ho preferito ad altre giapponeserie del filone popnaif.
Grazie all'imprecedibile hellbly per avermelo segnalato.