
Francesco Nuti è stato probabilmente l'attore comico italiano più dotato, assieme a Troisi, ma Troisi ha scelto la strada facile: è morto, e come tutti i morti è stato santificato, Nuti invece si è messo a dirigere i suoi film, si è messo ad avere sempre meno successo ed è finito per essere dimenticato dal pubblico (che è crudele e di merda) e a cadere in depressione, a tentare il suicidio e ad avere come migliore amica una bottiglia. Già questo ne fa di lui (per me) un eroe.
Questo film è il suo primo da protagonista, e ancora il meglio di se lo deve dare, qui è poco pià che un ragazzino sbarbato, impaurito e titubante. Sembra avere quasi timore di stare nell'inquadratura. Non fraintendiamo, il film è suo, lo tiene in piedi solo grazie alla sua prova d'attore, ma è in quella tenerezza delle sue espressioni, nella capacità dei grandi comici di saper far ridere con una mezza occhiata, nel disadattamento alla vita adulta e nel conseguente vagabondare per il film (un vagabondaggio per Prato, un vagabondaggio nell'Io e un vagabondaggio nell'inquadratura) che fanno del suo personaggio (quello di Nuti, non quello del film) uno dei caratteri più toccanti e tristi del cinema italiano più recente.
E poi non ho mai visto nessuno così in grado di essere terrificante e scorbutico, ma debole e sconfitto, nello stesso momento, con lo stesso tono, nel momento esatto della sfuriata, dello sfogo.
La madre che lo assilla per ogni minima cazzata, la ragazza che lo ha lasciato (ma lo ha deciso lui) il lavoro che deve cercare ma di andare in fabbrica (di tessuto, è Prato) al telaio e rischiare di perdere una mano non è proprio il massimo della sua aspirazione. Già, ma cosa può fare lui, imbranato, proletario e disadattato?
O va in Perù, o sposta la chiesa, o vince al totocalcio.
Sono passati trent'anni, non sembra essere cambiata molto l'Italia.